“Senza memoria non c’è futuro”. É stata questa convinzione, insieme alla volontà di consegnare ai giovani un messaggio di speranza capace di contrastare i rigurgiti di negazionismo e odio razziale del tempo presente, a spingere il prof. Cesare Moise Finzi, cardiologo di origine ebraica nato a Ferrara nel 1930 e vittima della persecuzione antisemita a seguito dell’introduzione in Italia delle leggi razziali fasciste del 1938, a mettere nero su bianco la sua storia e a girare per le scuole del territorio per portare la sua testimonianza alle nuove generazioni.
Nella mattinata di mercoledì 29 febbraio, il prof. Finzi è stato ospite anche del “Persolino-Strocchi”, dove ha incontrato studenti e docenti di tutte le classi quinte dell’Istituto. Per due ore, in un’Aula Magna gremita e silenziosa, ha raccontato con voce ferma, ma carica di emozione, della sua infanzia serena e spensierata, vissuta nella Ferrara del “ghetto” tra ricorrenze tradizionali, giochi con i compagni e la frequentazione della storica scuola ebraica di via Vignatagliata. Di quel terribile settembre del 1938 che interruppe e sconvolse per sempre la sua “normalità” di bambino di 8 anni, quando leggendo i giornali “dei grandi” scoprì di essere “diverso”, di appartenere a una razza “inferiore”, di non poter più frequentare la scuola pubblica né giocare ai giardini con i suoi amici. Dell’umiliazione di suo padre quando fu costretto a recarsi presso gli Uffici di Stato civile del Comune di Ferrara per denunciare le proprie origini ebraiche, con tutto ciò che questo avrebbe potuto comportare per la sua famiglia. Dell’inasprirsi della legislazione antisemita a seguito dello scoppio della guerra e della sofferenza di sentirsi rifiutato, discriminato, allontanato dai propri coetanei, stigmatizzato con il marchio della “malattia”. E poi ancora della feroce “caccia agli ebrei” che si scatenò dopo l’8 settembre 1943, quando gli elenchi dei cittadini italiani di razza ebrea depositati presso le Prefetture delle città occupate dai tedeschi finirono nelle mani dei nazisti e, per favorire denunce e delazioni, sulla loro testa venne messa una “taglia”.
Iniziò, così, la precipitosa fuga di Cesare, ormai tredicenne, e della sua famiglia allargata da Ferrara fino ai colli della Romagna, passando per Ravenna, Rimini e Gabicce. Una fuga scandita da pericolosi viaggi in treno con i fascisti alle calcagna, notti insonni alla ricerca di una casa dove trovare ospitalità durante il coprifuoco, il dolore straziante per la notizia dell’arresto e della deportazione di parenti e familiari che non avrebbero più fatto ritorno dai campi di sterminio.
Ma fu proprio durante questa fuga verso sud che la storia di Cesare e della sua famiglia si intrecciò fortunosamente con quella di alcuni “giusti”: uomini e donne ancora capaci di pensare con la propria testa e di provare compassione per altri esseri umani, disposti a disobbedire alle leggi inique del Regime e persino a mettere a rischio la propria vita pur di salvare delle persone innocenti. Come la famiglia Muratori, che a Ravenna, in nome dell’amicizia con un suo zio materno, li accolse nella propria casa e per giorni li nascose dai rastrellamenti dei nazifascisti. O come quell’anonimo impiegato dell’Ufficio anagrafe di Gabicce che, senza pretendere nulla in cambio, procurò loro dei documenti con nomi falsi e le relative tessere annonarie per consentirgli di fuggire indisturbati sulle colline della Romagna, nel piccolo borgo di Mondaino, e lì confondersi con la popolazione locale, fingendosi cattolici. O, ancora, come quell’ufficiale medico dell’esercito inglese che, quando suo fratello venne ferito gravemente ad un piede da una scheggia di granata dopo che tutta la famiglia, insieme agli abitanti del luogo, era stata sfollata nel vicino paese di Montefiore Conca, accettò di operarlo, salvandogli la vita, nonostante rischiasse gravi sanzioni.
Sono stati proprio questi incontri, esempi luminosi di quanto bene può fare un singolo uomo che abbia il coraggio di non piegarsi alla “banalità del male”, a restituire speranza al giovane Cesare, riconciliandolo con tutte le sofferenze subite in quegli anni terribili e dandogli la forza, dopo la Liberazione, di riprendere i suoi studi e di tornare ad una vita normale. Ed è per questo che il prof. Finzi, nel suo commosso racconto, ha voluto fare memoria proprio di questi uomini e donne “giusti”: perché, anche se nulla sarebbe stato più come prima e in tanti non avrebbero più fatto ritorno dai campi di sterminio, è stato solo grazie a loro, e alla loro capacità di disobbedire, che qualcuno si è salvato!
Una testimonianza davvero preziosa per tutti i ragazzi e le ragazze dell’Istituto, cui il prof. Finzi ha ricordato l’importanza di conoscere “quello che è stato” e di vigilare costantemente, affinché simili orrori non debbano ripetersi mai più.