“Domani è il primo maggio. Sta tra il 25 aprile e il 2 giugno e fa parte della triade di feste laiche di fondazione della Repubblica che trovano cassa di risonanza nella nostra Costituzione. Il 25 aprile scolpisce nella storia la vittoria sul nazi-fascismo resa possibile dalla Resistenza. Senza la Resistenza avrebbe potuto avere successo il tentativo della monarchia di riprendere a pieno titolo il ruolo sovrano che aveva dovuto condividere per un ventennio col fascismo. E invece, come risuona nel secondo comma del primo articolo della Costituzione: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». A sua volta il 2 giugno ricorda che al passaggio delle armi è corrisposto anche quello della coscienza politica, con quel referendum che buttò fuori dalla nostra storia la monarchia, che invece aveva uno Statuto, gentile concessione del sovrano. È il primo comma del primo articolo della Costituzione a stabilirlo: «L’Italia è una Repubblica democratica». Ma la frase non è completa. Si completa con il 1° maggio: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».
I fondamenti stessi del nostro modello di convivenza civile si collocano nel lavoro. Il primo di maggio è giorno di festa per le lavoratrici e i lavoratori. Non si festeggia un anonimo “lavoro” ma donne e uomini che non vivono di rendita, né del lavoro altrui, bensì del reddito che procura loro la propria attività. Non è nella libertà del capitale, nel libero mercato ma sul lavoro vivo, incarnato nelle lavoratrici e nei lavoratori, che si è edificata e si sostiene la possibilità stessa della nostra democrazia repubblicana. È nella consapevolezza del ruolo democratico, costitutivo e costituente delle lavoratrici e dei lavoratori, che non permisero la distruzione dei mezzi di produzione da parte dei nazifascisti in fuga, che la nostra Costituzione è sociale e non liberista.
E allora non può che risentirne la democrazia dell’attacco portato al lavoro incarnato. La proliferazione di contratti e tipologia di rapporti di lavoro che ha privato di coesione il popolo lavoratore. L’indebolimento del ruolo delle lavoratrici e dei lavoratori, seguito alla demolizione dei diritti faticosamente conquistati nel corso del novecento. La precarizzazione delle vite divenuta norma, dove prima era eccezione, per dare forza al quotidiano ricatto padronale. La finanziarizzazione dell’economia che dà la precedenza alle scommesse sul presunto futuro valore di merci e azioni, rispetto alla creazione di occasioni di reddito da vero lavoro.
Il lavoro per molte e molti è una condizione che ruba tutto il tempo disponibile senza consentire una vita dignitosa; che non dà certezze di rientro a casa per l’insicurezza in cui si svolge, sin dal tragitto per recarsi nel luogo di lavoro; che non dà proprio modo di avere la sicurezza di poter mantenere un tetto sopra la testa e di non trovarsi, pur lavorando, senza un indirizzo a cui legare la propria identità; che fa soggiacere a qualunque richiesta provenga dal padrone o, più spesso, da chi per lui, sotto perenne minaccia di perdere ciò che al lavoro consegue.
Domani è il primo maggio ed è la nostra festa. Ravenna in Comune è partigiana: è nata per rappresentare solo le classi popolari, quelle che vivono del loro lavoro. Lasciando la destra al suo mondo, altre forze politiche possono esercitarsi a definirsi di sinistra ed avere a proprio fondamento il superamento delle differenze tra chi ci mette il lavoro e chi i soldi. Per noi è possibile stare solo da una parte. Dalla parte di chi lavora, di chi lo cerca, di chi lo ha perso, di chi lo ha finalmente finito, di chi ci si prepara. Dalla parte della giustizia sociale, della democrazia costituzionale parlamentare, dalla parte del popolo. Dalla nostra parte.”