«Secondo i dati che abbiamo, sono in aumento gli incidenti che riguardano gli stagisti. Per molte imprese è diventata quasi un’abitudine ricorrere a queste figure, abusandone se non addirittura sfruttandole, per risparmiare sul costo del lavoro». Pesano come la putrella sotto cui è rimasto schiacciato un ragazzo le parole del direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro. «Coloro che fanno alternanza scuola-lavoro, tirocini e stage, anche volontari, sono sottoposti alle medesime norme di prevenzione e sicurezza degli altri lavoratori. Nella tutela dei lavoratori non c’è differenza. Non occorre rivedere le norme, basta applicarle. Queste cose succedono perché vengono violate le normative». Dunque muoiono giovani, vecchi, uomini, donne, senza distinzione se non fra lavoro manuale e alla scrivania.
Pesano queste parole ma non ci stupiscono. Sosteniamo da tempo che la sicurezza rappresenta un costo per il “nostro” mondo imprenditoriale. Non raccontiamoci balle: non c’è «un’etica dell’impresa che rispetti la dignità e i diritti dei giovani e di tutti i lavoratori». L’etica non è una voce di bilancio. Per chi misura la vita altrui e le attribuisce un valore, l’uso di DPI ha un costo e l’osservanza di procedure pure. Fare un determinato lavoro in un tempo inferiore significa aumentare la produttività. Pensiamoci quando leggiamo che in Italia bisogna aumentarla, perché si può ottenere lo stesso risultando con investimenti tecnologici che hanno un costo. Oppure aumentando la produzione spremendo il lavoro materiale. E a un certo punto della spremitura ci si accorge che saltando qualche passaggio si produce di più. Aumenta anche il rischio per chi deve compiere il lavoro ma questo non importa. Che a rischiare sia un vecchio muratore che cade da un’impalcatura oppure un giovane apprendista travolto da una trave non fa differenza. E non rappresenta un costo. Tanto nessun padrone andrà in galera né per la morte del primo che per quella del secondo.
Come abbiamo detto più volte, invece, è proprio questo che può arrestare la deriva. Non i messaggi di cordoglio il giorno dopo ma un costo personale tangibile per chi si disinteressa di quelli che fa correre a chi costringe a lavorare senza sicurezze. Una pena gravosa, non economica ma detentiva, applicata al padrone, non al collega di lavoro, come oggi ogni tanto capita. Al padrone vero, non già al manager appositamente fornito di delega per allontanare dal padrone ogni rischio. E poi ci vogliono controlli. Tanti. Pervasivi. Certi. E quindi anche i controllori. Formati. Preparati. Non lavoratori sfruttati pure loro. E, ancora, un quadro informativo da cui partire, da cui ricavare territorio per territorio dove andare a guardare, a controllare, le situazioni di maggior rischio, i punti di maggior debolezza.
A quest’ultimo scopo, non ci stancheremo di ripeterlo, doveva servire l’Osservatorio per la legalità e la sicurezza del lavoro che facemmo istituire nello scorso mandato consigliare. Attualmente non se ne sa più niente, da quando è stato relegato in Prefettura. L’ultima notizia risale alla settimana successiva alla duplice morte di due lavoratori nella stessa maledetta giornata della scorsa estate. Poi più niente. Il Sindaco vuole tenerlo lontano dal Comune. «Non credo che spostare l’osservatorio dalla Prefettura, che è l’ente preposto alla sicurezza, al Comune possa essere davvero incisivo» dice. Invece è proprio in Comune che deve essere attivato. È solo il primo passo verso un cambiamento, ma se vogliamo veramente che tornare a casa dalla giornata lavorativa sia normale per tutti è da qui che dobbiamo partire, almeno a Ravenna. Ad oggi sono già 56 i morti di lavoro (dati dell’Osservatorio nazionale indipendente). Più di due al giorno. Poi ci sono i feriti, più o meno gravi, naturalmente. Per quanto tempo ancora chi siede in Consiglio Comunale, Coraggiosa compresa, continuerà a girarsi dall’altra parte?