Che guerra ed energie fossili siano strettamente collegate tra loro ce lo hanno raccontato varie volte in riferimento al conflitto che si sta svolgendo in Ucraina. Da una parte con la guerra ucraina e le sanzioni applicate alla Russia si è giustificato l’abbandono anche della finzione di un lentissimo avvio di processo di transizione verso energie sostenibili e rinnovabili. La ragione addotta è che si tratterebbe di un processo troppo lento per risolvere i problemi di oggi di (presunta) mancanza di gas. Il paradosso è che sia la lentezza di tutti i procedimenti che riguardano le rinnovabili che la riduzione in prospettiva degli acquisti dal fornitore di gas russo sono entrambi il portato di scelte ben precise. Non una sorta di evento naturale, bensì consapevoli decisioni politiche. Attraverso le quali sta passando il futuro dell’Italia come hub del gas europeo, luogo da cui far transitare il gas liquefatto prevalentemente di provenienza fracking USA, per una rivendita all’estero previa rigassificazione ed immissione nella rete europea dei gasdotti. Già oggi, peraltro, siamo stati testimoni di un primo semestre ruggente in fatto di import export, alla faccia di presunte carenze e timori per l’inverno, che ha portato la sola ENI a vantarsi di un aumento del 700% degli utili tra gennaio e giugno 2022 rispetto al corrispondente semestre dello scorso anno. Dall’altra si è arrivati a scaricare sulla Russia la responsabilità di aumenti che la speculazione aveva già fatto salire vorticosamente dallo scorso anno. Si sono già dimenticate (o si è finto di farlo) le precise denunce russe di speculazioni in atto rispetto a forniture pagate a prezzo fisso sulla base di contratti pluriennali, ben prima della guerra.
Comunque sia non c’è solo l’Ucraina. Anzi, l’attenzione del nostro Paese ai luoghi di conflitto, non già in vista di una pacificazione ma per la tutela delle fonti di approvvigionamento di energie fossili, è consolidata da molti anni. Negli ultimi tre anni la spesa italiana per le missioni militari in tutela della sicurezza energetica è più che raddoppiata. Per il solo 2022, per la tutela armata di asset fossili, è previsto un investimento di 870 milioni di euro (+9% rispetto al 2021 e +65% rispetto al 2019) pari al 71% dell’intero budget per le missioni militari di cui al cosiddetto “decreto missioni 2022”. In particolare, il consistente aumento di spesa per il 2022 dipende soprattutto dal fatto che da maggio l’Italia ha assunto il comando della missione Nato in Iraq, uno dei principali fornitori di greggio per il nostro Paese.
In un rapporto da poco pubblicato Greenpeace arriva a sostenere che le estrazioni di gas e petrolio, che il nostro governo va a difendere in giro per il mondo, contribuiscano a causare quelle stesse crisi che l’Italia tenta poi di stabilizzare con le sue missioni militari. Infatti l’estrazione di fonti fossili attiverebbe un circolo vizioso che inizia con il deterioramento delle aree coltivate e delle acque prospicienti i pozzi, che impoverisce le comunità locali e alimenta disordini e crisi che le forze armate si propongono poi di sedare. Tutto ciò anche senza considerare il danno ambientale e le conseguenze in termini di cambiamenti climatici e dissesto idrogeologico e i loro effetti sulle migrazioni.
Del resto il cosiddetto circolo vizioso dipende dall’impossibilità di fronteggiare la fame di energia italiana attraverso le risorse presenti sul territorio nazionale. Lo sfruttamento dei giacimenti italiani di gas come soluzione a tutti i mali funziona solo finché si resta nel regno della fantasia abitato dai repubblicani e dal sindaco di Ravenna. Ad oggi, peraltro, non è nemmeno stata mai emanata alcuna norma che obblighi alla vendita del gas “italiano” a prezzo calmierato: si specula sul gas locale estratto dall’Angela Angelina allo stesso modo che su quello estero scaricato al rigassificatore di Livorno.
«Il nostro Paese deve smettere di proteggere militarmente gli asset e gli interessi dell’industria fossile, puntando con decisione sulle fonti rinnovabili e sul risparmio energetico. Solo così si tutela davvero l’ambiente e la pace» sostiene Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace. Come Ravenna in Comune siamo totalmente d’accordo con Greenpeace. Allo stesso tempo, come più volte detto, ci opponiamo alle ricette a base di gas, miopi e fallaci, propinate dal sindaco e dai suoi amichetti repubblicani con il convinto sostegno del restante consiglio comunale. Viene da considerare che, uscita Ravenna in Comune alla fine della scorsa legislatura, non vi sia più opposizione coerente (se non fosse per qualche accenno non proprio urlato dei 5stelle che, comunque, si guardano bene dall’uscire dalla maggioranza).
Un futuro sarà possibile solo se sostenibile e alimentato da energie rinnovabili.