30 anni fa, il 4 agosto 1994, moriva Giovanni Spadolini, il grande laico, eppure così rispettoso e profondamente intriso di sentimento religioso: quella “religione del dubbio”, nella quale intravedeva l’essenza stessa della laicità, che non significa certo astenersi dalle scelte.
La sua idea di laicità era dunque un’idea che esprime i limiti della condizione umana, ma anche la grandezza della sfida continua cui essa è chiamata.
Per Spadolini quella via era trovare una strada per comporre le diversità, nella consapevolezza che il percorso è spesso stretto e difficile, ma che il confronto aperto, sereno ed equilibrato, resta sempre il modo più efficace per percorrerlo fino in fondo.
Nella semplice scritta sula sua tomba – “un italiano” – si racchiude il significato di un’esistenza spesa con dedizione a servizio della collettività, che per Giovanni Spadolini era prima di tutto la comunità della nostra Italia.
In fondo, è questo il senso di tutto il suo impegno politico e intellettuale: l’Italia come insieme di campanili che arricchiscono l’essere comunità nazionale e non come elementi di divisione; dunque come cemento identitario di quel tessuto unitario, tanto faticosamente e dolorosamente costruito col nostro Risorgimento, epoca della quale fu sempre profondo studioso e magistrale interprete in chiave di attualizzazione.
Anche per questo occorre opporsi ai tentativi di disgregazione in atto come la legge Calderoli sull’autonomia differenziata, e come il premierato che farebbe altresì strame della democrazia parlamentare, pilastro della nostra Repubblica.
Giovanni Spadolini, che si era caricato sulle spalle il PRI orfano di Ugo La Malfa, è stato protagonista della vita politica italiana in un momento particolarmente difficile e complesso della nostra storia del dopoguerra.
Non a caso il Presidente Pertini, nel giugno del 1981, in uno dei momenti più difficili della nostra giovane Repubblica, dopo le inquietanti vicende di Gelli e la P2, lo incaricò di formare il governo e lui, con la grandezza intellettuale, la fermezza nei principi e l’integrità morale, riuscì nell’intento, diventando così il primo Presidente del Consiglio non democristiano della storia repubblicana e lasciando un segno indelebile nella storia dei governi del Paese.
Un protagonista assoluto della sua epoca che attraversò con la sua grandezza intellettuale e culturale e con l’orgoglio di appartenere a quella illuminata Italia di minoranza, laica e civile, “l’Italia della ragione“, in cui si erano sempre identificati tanti degli uomini che avevano contribuito a determinare il progresso politico, sociale, economico e culturale del nostro Paese.
“Noi apparteniamo all’Italia dei vinti. Quella delle minoranze laiche e risorgimentali.” anche se in quel suo detto c’era la precisa consapevolezza che quella era l’Italia di chi non aveva mai perso perché era l’Italia erede, custode e continuatrice di quei valori che l’avevano costruita nel suo percorso unitario, democratico e repubblicano.
Così come in lui era altrettanto chiara la consapevolezza di appartenere al novero della sinistra liberaldemocratica europea: “È Repubblicano chi crede in un’idea alta e severa dell’Italia laica, l’Italia della ragione nella quale il senso del problemismo e del concretismo mai si separa dal senso del limite e della misura. È l’Italia moderna, capace di affermare la prevalenza del politico sul sociale sempre, contro ogni populismo e ogni fuga nel messianesimo e nell’utopia. E proprio perché espressioni come destra o sinistra sono soggette a variazioni, noi non abbiamo mai chiamato il PRI partito di sinistra tout court, ma sempre partito di sinistra democratica”.
Il suo essere uomo della mediazione, sempre pronto a stemperare i contrasti in nome di un interesse superiore, non gli impedì mai di essere intransigente sui principi e di puntare i piedi quando si trattava di mettere a rischio quelli che definiva “gli interessi indisponibili del Paese”: l’Europeismo, l’Atlantismo e la difesa dello stato di Israele come baluardo dell’occidente.
Anche per questo, con la sua ferma lucidità, mostrò di aver compreso molto meglio rispetto ad altri, e soprattutto con grande anticipo rispetto a tutti, quale minaccia fosse il terrorismo mediorientale.
Il suo forte senso dello Stato e l’amore per le istituzioni repubblicane ne facevano uno dei più autorevoli difensori della Carta costituzionale, scudo laico a difesa di tutti e non privilegio di pochi.
Il resto lo faceva la sua profonda consapevolezza, alimentata dagli studi storici, che la Libertà non può mai essere data per scontata e richiede una continua vigilanza fondata sull’etica e sulla responsabilità istituzionale che passa dal rispetto delle minoranze, del ruolo dei poteri costituzionali e, non da ultimo, del ruolo dell’informazione che in una repubblica non può essere mai asservita al potere.
Una concezione che oggi pare lontanissima dai modi della politica attuale, ma che invece andrebbe recuperata prima che la degenerazione in atto raggiunga livelli irreversibili di barbarie politica, culturale e sociale.
Per questo ricordarne la vita e l’opera non è solo un atto dovuto ma il modo migliore per indicare una via ai tanti problemi dell’Italia di oggi e dell’Europa di domani.