“Del tutto recentemente ENI e SNAM, che come sempre hanno la potestà di mettere le popolazioni di fronte ai fatti compiuti, senza che queste siano state protagoniste di qualsivoglia consultazione, e senza che le rappresentanze politiche se ne preoccupino, hanno annunciato l’avvio delle attività di iniezione sotterranea della CO₂ nell’ambito del progetto per la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS) a Ravenna.

La fase avviata in questi giorni avrebbe lo scopo di catturare, trasportare e stoccare la CO₂ emessa dalla centrale Eni di Casalborsetti, qualcosa come 25mila tonnellate per anno. Poi ci sarà una  fase 2, nella quale si prevede di stoccare fino a 4 milioni di tonnellate l’anno di CO2 entro il 2030.

Come noto, la CO₂ catturata viene trasportata attraverso condotte, fino a una piattaforma al largo di Ravenna, per essere iniettata in un giacimento di gas esaurito, a circa 3mila metri di profondità. Si dice che tale operazione abbatterà di oltre il 90% la CO₂ in uscita dalla centrale.

I diversi progetti di CCS del passato, nel mondo, si sono dimostrati quanto meno deludenti, assolutamente non convenienti economicamente e soltanto teorici dal punto di vista della lotta al cambiamento climatico. Abitualmente l’anidride carbonica catturata e sequestrata veniva riutilizzata per favorire la fuoriuscita degli idrocarburi dai giacimenti, cioè per “spremere” i depositi in via di esaurimento (e quindi produrre petrolio e gas, con ulteriori emissioni inquinanti e climalteranti). Sembra che l’impianto ravennate abbia uno scopo esclusivamente ambientale, decarbonizzare le emissioni di alcune industrie, e non debba servire per facilitare ulteriori estrazioni.

L’ operazione consiste nel prelevare la CO2 delle aziende energivore (aziende siderurgiche, vetrerie, cartiere, produttori di ceramica, ecc.), le quali non avrebbero più convenienza a pagare i cosiddetti  permessi di emissione, il discutibile sistema in atto, che sostanzialmente  – purché si paghi – rende lecito avvelenare l’aria che respiriamo.

In definitiva, la carbon capture viene proposta come operazione in favore del clima.

E’ normale che sorgano forti dubbi, fra i movimenti ambientalisti e le popolazioni, soprattutto se si dice di voler intraprendere la strada della fuoriuscita dal fossile e non solo fare delle operazioni di greenwashing a scopo di lasciare la situazione complessiva così come sta.

Se esaminiamo con obiettività e lungimiranza l’insieme della tematica, non possiamo che rilevare una serie di contraddizioni che dovrebbero indurre ad evitare enormi investimenti nel CCS, che sarebbero molto meglio impiegabili altrove.

Intanto ragioniamo sui Costi, che l’accoppiata SNAM-ENI, peraltro,  non ha reso noti nei dettagli.

Sappiamo che il costo di un ciclo completo di separazione e stoccaggio della CO2 negli impianti attuali varia da 124 a 317 euro per tonnellata di CO2, il che vuol dire che il costo di questa sola prima fase, in qualche modo “sperimentale”, sarà di oltre  cinque milioni di euro, senza per altro considerare nel calcolo i costi collegati alla gestione dei rischi, né  quelli della manutenzione e monitoraggio dei siti.

Fra l’altro gli impianti, in gran parte, sono lontanissimi dai siti di stoccaggio; e anche questo rende estremamente oneroso il processo, che oltre tutto richiede l’uso di sostanze chimiche, rilascia grandi quantità di ammoniaca; e comporta un alto consumo di acqua e di elettricità.

Nella logica di mercato, e in un’organizzazione energetica basata sul profitto, l’alto costo della CCS dovrà quindi essere compensato dalla vendita della CO2 catturata, oppure da incentivi governativi, e sicuramente facendo pagare un prezzo ai consumatori. Non si può certo dire che un quadro del genere possa essere definito di sostenibilità.

Ma quale speranze di successo hanno in genere questi progetti ?

Dal 2009  i governi hanno stanziato oltre 8 miliardi di dollari per progetti CCS, ma solo il 30% di questi finanziamenti è stato speso perché i progetti non sono riusciti a decollare. Alcuni lo hanno  fatto ma hanno avuto risultati insufficienti, e i percorsi sono stati spesso abbandonati per insostenibilità economica.

Dal punto di vista dei tassi di cattura annunciati, il risultato è stato deludente, essendo quelli effettivi  spesso significativamente più bassi rispetto a quelli teorici. Non ci sono molti elementi per pensare che ENI e SNAM riusciranno effettivamente a rispettare gli obiettivi sbandierati.

I circa 40 gli impianti commerciali di cattura della CO2 operativi nel modo catturano annualmente 45 milioni di tonnellate di CO2, equivalenti allo 0,12% delle emissioni globali del 2022 legate al solo settore energetico, senza contare gli altri milioni di tonnellate provenienti dai trasporti, dalla vita domestica, dall’agricoltura, i rifiuti e tutti gli altri settori.

Dal punto di vista del bilancio costi-benefici, dunque, non ci siamo proprio.  Molte attività energivore,  sono più elettrificabili di quanto si pensi comunemente, e investire per imboccare questa strada sarebbe sicuramente molto più conveniente, da tutti i punti di vista.

Se poi pensiamo che ancora meno sensato e ancora più costoso sarebbe l’apporto alla decarbonizzazione di un’altra forma di CCS, cioè la cattura diretta dell’aria, da alcune parti proposta, capiamo che il concetto stesso di CCS propone – dal punto di vista ambientale – di svuotare l’oceano con un cucchiaino.

E’ una facciata dietro cui le società degli idrocarburi si nascondono per continuare a estrarre gas e petrolio il più a lungo possibile, ottenendo l’autorizzazione a rimandare sine die il taglio delle emissioni.

Ma sappiamo anche bene che queste società ricevono cospicui sussidi (che ricadono notevolmente sui costi energetici delle persone), e quindi non si pongono il problema della reale utilità dei progetti. La CCS, se non finalizzata al recupero di  petrolio residuo, è risultata spesso economicamente insostenibile senza enormi finanziamenti. I sussidi pubblici alle fonti inquinanti andrebbero progressivamente tagliati, invece ammontano a svariate decine di miliardi annui, ed ENI e SNAM sono fra i massimi beneficiari.

Inoltre, come abbiamo appreso dalla stampa di queste ultime settimane, altre ingenti opere accessorie dovranno essere costruite, in particolare un lunghissimo gasdotto di novantaquattro chilometri proveniente dal ferrarese, con pesanti ripercussioni sui territori interessati, come sta avvenendo sotto gli occhi di tutti per la realizzazione del gasdotto della Linea Adriatica, altra opera faraonica destinata a restare sottoutilizzata.

Noi siamo convinti che tutto il sistema energetico debba essere profondamente riformato, tolto dall’ambito del profitto e traslato in quello dei beni comuni, e soltanto così la società nel suo complesso potrà decidere quali sono i fronti della  ricerca e della tecnologia realmente utili.

Ma a SNAM ed  ENI,  e ai loro “padrini politici” di ogni colore, il tema del bene comune non interessa un granché.”