Dopo la grande partecipazione al recente incontro con la professoressa Vera Gheno, l’Ordine provinciale degli Architetti organizza – all’interno del progetto “Tempus” finanziato dal programma Interreg Italia-Croazia, di cui è partner anche la CNA di Ravenna – un’altra significativa occasione di confronto, aperta a tutti, con il milanese Gianni Biondillo, architetto a sua volta, ma noto all’opinione pubblica soprattutto come scrittore dei gialli che hanno come protagonista il commissario Ferraro (ma anche Milano…).
In realtà, Biondillo – a lungo professore di Psicogeografia e narrazione del territorio all’Università della Svizzera Italiana – scrive anche saggi legati appunto al territorio; è scopritore di percorsi urbani; vive intersecando le sue professionalità in un discorso che mette sempre al centro la città e quindi presta attenzione alle persone.
L’Ordine degli Architetti l’ha voluto nel ravennate perché i suoi saggi e le sue conferenze aiutano ad aprire la mente: Biondillo sarà a Ravenna domani, venerdì 3 alle 17 alla Biblioteca Classense (titolo “Heidegger aveva torto. Narrazioni tossiche e bipedismo”), e sabato 4 alle 10 al Museo di Scienze Naturali (titolo “”Sentieri Metropolitani. Topografare la città a piedi”).
Gli abbiamo posto alcune domande sulla sua poliedrica attività e sul suo rapporto con l’architettura e il territorio.
Cominciamo dal ruolo sociale che ha l’architetto oggi. Cosa ne pensa?
In un certo senso, 15-20 anni fa, ci ha fregato il mito dell’archistar. Prima che nascesse la moda di questi strani personaggi calati dall’alto che diventavano molto trendy, in tv e sulle riviste, il ruolo dell’architetto era quasi oscuro: ma l’architetto sapeva cosa faceva, un’attività importantissima, modificare la realtà costruendo case ed edifici, e con una responsabilità. Poi l’abbiamo trasformato: oggi è una sorta di parrucchiere, che fa la sfumatura alta o bassa, ma i giochi veri li fanno i grandi capitali, la politica, ecc. e gli architetti servono soltanto per tagliare il vestito. E la categoria ha accettato questo ruolo: mentre dovemmo tornare a ricordarci che siamo innanzitutto cittadini, come un panettiere, un idraulico o un avvocato. Dobbiamo tornare a sentirci parte di una grande comunità: certe narrazioni tossiche ci stanno facendo credere che per essere architetti bisogna farlo strano, progettare torri sbilenche, quando invece dovremmo capire che c’è poco da costruire, ma molto da lavorare sul costruito. Un tema che coinvolge la prooduzione di CO2, i cambiamenti climatici e via dicendo. Nel corso del Novecento abbiamo costruito milioni di metri cubi che oggi sono abbandonati: cosa ne facciamo? E’ un tema che deve coinvolgere tutti i cittadini. Quel che fa l’architetto deve interessare tutti. Perché possiamo vivere senza libri, e lo dico da scrittore, ma non senza case…
Lei ha insegnato a lungo psicogeografia all’università. Cosa significa?
E’ una visione nuova e molto stimolante che dovrebbe diventare patrimonio condiviso, superando le banali disquisizioni delle trattazioni sul paesaggio cui siamo abituati. Nelle mie lezioni si parla di antropologia, sociologia, musica, poesia… la complessità del mondo va vista sotto molti sguardi, ma il filo conduttore è che dobbiamo attraversare il territorio a piedi. Non c’è alternativa. Cambiare la narrazione del Novecento sull’automobile, sull’aeroplano, che ci ha reso sempre più solipsisti: occorre raccontare una nuova idea di mobilità, di lettura del territorio, anche attraverso esperimenti collettivi. Io faccio da anni, in molte città, questa camminate collettive: oggi del resto ce ne sono in mezza Europa. Ho scritto un libro sulle tangenziali di Milano fatte a piedi: tutto un territorio che non viene mai raccontato da nessuno, ma c’è… Bisogna voltare le spalle al centro storico e vedere quei posti dove non andreste mai.
Intende le periferie?
Io credo che non ci siano “non luoghi”. Tutto il territorio è interessante: non mi piace definire una “periferia”, altrimenti già la stigmatizzo. Ogni luogo ha sue peculiarità, le sue fragilità, che vanno guardate, interpretate e risolte.
Nei suoi romanzi parla sempre di Milano. Come la considera?
Vale ancora quel che diceva Verga più di cent’anni fa: Milano è la città più città d’Italia… E’ la città più europea d’Italia, ma anche la più italiana d’Europa. Milano è piena di contraddizioni, di interventi calati dall’alto ma anche di reazioni venute dal basso. Ma questa inquietudine è comunque positiva, va bene che ci siano contrasti su certe scelte, le più disparate: si discute di aumentare pedonalità e ciclabilità, sulle strade con il limite di velocità a km 30: vuol dire che almeno si discute, i milanesi non accettano che qualcun altro decida per loro…
Chiudiamo con le due conferenze che terrà a Ravenna e Faenza. Che differenze ci saranno fra l’una e l’altra?
Le ho divise concettualmente, per fare due discorsi diversi. Sarebbe preferibile seguirle entrambe, una è più teorica e l’altra più applicata.
Nella prima, quella di Ravenna, parto dall’uomo primitivo per dire che l’umanità è tale da quando ha scelto di stare su due piedi. In 400 mila anni abbiamo conquistato il mondo camminando, dobbiamo sempre tenerlo presente. Nella seconda, quella di Faenza, farò esempi di come scoprire le città a piedi. Succede a Milano, Marsiglia, Parigi, Colonia: c’è una nuova urbanistica che si fa a piedi, si guarda alla città non dall’alto ma da dentro.