L’infermiere di famiglia e comunità è il cardine della nuova assistenza disegnata dal cosiddetto “DM 71”, la delibera 21 aprile 2022 del Consiglio dei ministri, con cui si colma un vuoto che da anni caratterizza l’assistenza sanitaria: la sanità del territorio.
A dirlo, sottolineare l’importanza di questa figura e a precisare che negli anni fino al 2026 ci sono anche le risorse per realizzarla (circa 1,5 miliardi per il personale) sono stati anche a Bologna, dove si svolge Exposanità 2022, la maxi-manifestazione sulla sanità italiana e internazionale, il direttore generale dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas) Domenico Mantoan e il coordinatore degli assessori alla sanità delle Regioni, Raffele Donini. Ma sull’infermiere di famiglia e comunità si è concentrata un’intera giornata dell’expo di Bologna che ha tracciato tutti i profili dell’”infermiere protagonista dell’assistenza territoriale”, organizzato dal Coordinamento Ordini Professioni Infermieristiche Regione Emilia Romagna, con il patrocinio di FNOPI.
Il rafforzamento del sistema assistenziale sul territorio, finalizzato a promuovere una maggiore omogeneità e accessibilità dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria, passa attraverso l’integrazione di diverse figure professionali, tra le quali l’infermiere di comunità riveste un ruolo fondamentale. Attraverso, infatti, la presenza continuativa e proattiva nella comunità di riferimento, l’infermiere di Comunità assicura la necessaria collaborazione e interazione con tutti i professionisti coinvolti, contribuendo quindi in modo sostanziale all’incremento dell’assistenza territoriale nel nostro Paese, dal 4 al 10 per cento, così come previsto negli obiettivi del PNRR.
Di infermieri di famiglia e comunità ne servono, secondo i nuovi standard, almeno 20mila, ma di infermieri in assoluto ne mancano all’appello circa 70mila, da quelli che dovranno agire nelle Case della comunità a quelli destinati agli Ospedali di comunità, che sono strutture a gestione infermieristica, dagli infermieri he lavorano nelle corsie degli ospedali a quelli dedicati all’assistenza domiciliare integrata sul territorio.
“Quello che davvero è necessario per far decollare l’assistenza sul territorio – ha detto la presidente della Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche (oltre 460mila infermieri) Barbara Mangiacavalli – è l’interprofessionalità: oggi lavoriamo uno accanto all’altro per il paziente, ma non basta, ogni professione sanitaria deve essere interconnessa con le altre e tutte devono essere tarate solo sui reali bisogni dell’assistito”.
“E’ necessario che il Governo intervenga in modo incisivo, sia sui numeri, sia sulla formazione e il riconoscimento professionale”, ha commentato Barbara Mangiacavalli – “È quindi auspicabile – ha aggiunto – l’avvio di un processo di riforma dei percorsi accademici, che dovrà tradursi in un graduale ampliamento dei numeri programmati e, in particolare, nell’accesso a lauree magistrali a indirizzo clinico, con l’obiettivo di sviluppare e valorizzare le specificità della professione infermieristica ampliando formalmente le competenze dell’infermiere sia in termini di autonomia e responsabilità, sia per la capacità di programmazione, regolazione e autocontrollo sulle attività di propria competenza nei diversi ambiti”.
E il peso degli infermieri – che oggi celebrano la giornata internazionale della loro professione – è riconosciuto a livello internazionale. Secondo studi internazionali (come Rn4Cast, pubblicato su The Lancet), ipotizzando che si riuscisse ad avere un rapporto di un infermiere ogni sei pazienti (ma oggi la media italiana è 1:11) potrebbero essere evitate 3.500 morti l’anno. Nella dotazione organica, rapporto infermiere/pazienti, a ogni aumento di un’unità paziente per infermiere, la probabilità di morte del paziente aumenta del 7%. A ogni aumento del 10% di personale infermieristico laureato corrisponde una diminuzione del 7% di mortalità. Per questo è indispensabile anche un intervento sulla formazione.
Le carenze di personale e la necessità di fare ricorso al lavoro straordinario portano anche a un elevato tasso di “fungibilità” della professione, impiegata in tutte le situazioni in cui l’assistenza scarseggia, senza tenere in alcun conto il livello di formazione raggiunta dalla maggior parte degli infermieri, attraverso il conseguimento della laurea triennale o magistrale, che genera situazioni anche di burnout, pericolosi per i professionisti e per i pazienti.