Sotto le slogan depascaliano che “le cose qui si fanno” è andato in onda, su tutte le emittenti locali, uno strepitoso sceneggiato sulla storica partenza del porto di Ravenna verso un futuro da sogno. Peccato che sia identico a quello pubblicato il 28 febbraio 2018 su questa tal quale notizia: via libera del Governo al progetto di 235 milioni per “approfondimento dei fondali a -12,5 mt, realizzazione di una nuova banchina per terminal container di oltre 1.000 mt e di oltre 6.500 mt di banchine esistenti”. Gonfiata e rigonfiata tante volte, la stessa notizia fu celebrata anche il 13 giugno scorso per l’assegnazione del contratto di appalto dei lavori al consorzio di ditte vincitore dell’appalto. Oggi, la strabiliante firma del contratto, trascurando però di sottolineare che, mancando il progetto esecutivo, i lavori – se tutto va bene – cominceranno solo nel 2021 per finire nel 2026. Tale cosiddetto “Progetto Hub portuale di Ravenna” fu gloriosamente concepito dall’Autorità portuale nel lontano 2012, mentre è dal 2006 che dai fondali del porto-canale, allora portati a -11,50 metri, non è stato scavato un metro cubo di fanghiglia, tanto che a tutt’oggi, per ordinanza della Capitaneria, vi entrano, per disastrosa manutenzione, solo le navi con pescaggio massimo di 9,45. Talché lo slogan dovrebbe almeno essere“le cose qui si faranno forse”. Chi ha esercitato un potere politico totalizzante sul porto di Ravenna in questi 15 anni da incubo dovrebbe non gloriarsene, tanto più che, se “in passato sono stati commessi anche degli errori” (detto dal sindaco stesso in carica), la loro correzione si deve alla strenua battaglia prima e poi alla collaborazione dell’opposizione, indiscutibilmente rappresentata da Lista per Ravenna.
Quello che indigna è però avere già impegnato ulteriori decine di milioni per progettare una futuribile opera mostro: approfondire il porto a -14,5 metri per costruire un nuovo terminal container atto a farvi entrare, con le “grandi navi” da 400 metri, 500 mila container (intesi come TEU) l’anno. L’Autorità portuale dichiarò il 9 dicembre 2012: “Le navi container da 400 metri qui, per la conformazione del nostro porto, non arriveranno. Abbiamo fatto delle simulazioni e al massimo possono arrivare quelle di 300-330 metri”. E il comandante del Porto, il 19 ottobre 2012: “Il dragaggio potrà aumentare il pescaggio, ma le imbarcazioni non potranno mai superare i limiti oggettivi di questo porto”: cioè di uno stretto canale, da cui le “grandi navi” non possono certo uscire in retromarcia. Circa poi il mezzo milione di container preannunciato, vale niente ricordare che, quando la Sapir partorì la mitica società pubblica privata TCR (Terminal Container Ravenna), l’obiettivo era di raggiungere i 300 mila, mentre a 15 anni di distanza si veleggia tuttora più o meno sui 200 mila?
Ma la vergogna è soprattutto che, in questo periodo tremendo per l’economia mondiale, tragico per le aziende del porto di Ravenna ormai alla canna del gas, non si fa nulla per farvi fronte. Molte navi non vengono più a Ravenna e non ritorneranno se i centri di costo del porto non diventeranno competitivi per le imprese armatoriali rispetto ai porti concorrenti. Ma per questo nemmeno un soldo. Intanto, proiettando i dati dei primi nove mesi sull’intero anno, saranno 198.241 i container trattati dal porto di Ravenna nel 2020, abissalmente distanti dai 500 mila su cui si stanno buttando a mare capitali di soldi, molto meglio spendibili per superare la crisi attuale. Voce di uno che grida nel deserto? Era quella del messaggero evangelico che voleva raddrizzare i sentieri di vita distorti.