La parabola della greca Maria che si trasforma nella divina Callas, il mondo intero catturato dal sortilegio della sua voce, non lasciò dubbi a Pasolini: fu pensando a lei che scrisse la protagonista del suo Medea (1969) che sarà proiettato alla Rocca Brancaleone mercoledì 15 giugno, alle 21.30. Il secondo appuntamento della rassegna cinematografica organizzata da Ravenna Festival in collaborazione con Rocca Cinema è quindi un doppio omaggio a Pier Paolo Pasolini e Maria Callas, che in Medea divenne l’eroina di un mondo arcaico, religioso, sottoproletario. Mondo irriducibilmente contrapposto a quello razionale, laico e moderno di Giasone, il cui ruolo fu affidato a Giovanni Gentile, due volte record mondiale del salto triplo alle Olimpiadi del ’68. L’atleta e la cantante, dunque, per raccontare ancora una volta lo scontro tra passato e presente: dopo tutto, ammetteva Pasolini, un regista fa sempre lo stesso film come un poeta scrive sempre la stessa poesia.
“Questa barbarie che è sprofondata dentro di lei, che viene fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata, insomma i dieci anni passati a Corinto sarebbero un po’ la vita della Callas – spiegò Pasolini – Lei viene fuori da un mondo contadino, greco, agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Quindi in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio quello che è lei, nella sua totalità complessa”. Non a caso Pasolini chiese al direttore della fotografia Ennio Guarnieri e al fotografo di scena Mario Tursi di concentrarsi sul volto e i gesti della protagonista, sullo sguardo e sul profilo che spesso si sostituiscono al dialogo. Dopo aver interpretato la Medea di Luigi Cherubini sulle scene di tutto il mondo, la Callas aveva già ricevuto, e sempre rifiutato, offerte per un’interpretazione cinematografica del personaggio. Dall’esperienza sul set pasoliniano nacque invece una profonda e complessa amicizia: la cantante si firmava “Maria fanciullina” nelle lettere al regista, lui le dedicò versi struggenti nella raccolta Trasumanar e organizzar.
Ma chi è Medea? Principessa barbara iniziata alle arti magiche, nella tragedia di Euripide esce di scena a bordo del carro del Sole trainato da draghi alati, dopo aver assassinato i propri figli, frutto della relazione con Giasone. Ha punito così l’eroe greco, del quale era stata complice nel furto del Vello d’oro, per aver deciso di abbandonarla e sposare la figlia del re di Corinto. Un mito infinitamente raccontato e riletto – dalla condanna delle passioni messa in scena dallo stoico Seneca alla rivisitazione femminista del premio Nobel Christa Wolf – di cui Pasolini coglie un altro carattere emblematico: quello dello scontro fra due civiltà, la Colchide / Oriente di Medea, primitiva e animistica, e la Grecia / Occidente di Giasone, progressista e moderna. Insomma, la Medea pasoliniana soffre lo sradicamento piuttosto che il tradimento e diventa metafora di un mondo arcaico che rifiuta l’assimilazione al proprio colonizzatore ma ne riproduce la violenza – inevitabilmente e catarticamente, come direbbe il sociologo Frantz Fanon.
La prima parte del film si concentra non tanto sulla spedizione degli Argonauti quanto sulla ricostruzione, sospesa fra curiosità etnografica e istanze poetiche, di un tempo mitico. Nel mondo sacrale della Colchide irrompe l’arroganza del colonizzatore: Giasone e i compagni si dedicano alla razzia in un crescendo di azioni desacralizzanti. Persino il Vello d’oro, la pelliccia del caprone divino che avrebbe dovuto assicurare all’eroe l’ascesa al trono della Tessaglia, una volta rubato sembra una qualsiasi pelle di montone. “Questa pelle lontana dal suo Paese non ha più alcun significato,” ammette lo stesso Giasone quando il trono gli è negato nonostante egli abbia portato a termine la missione. Dotato di pochi dialoghi, il film si affida a una selezione di musiche che Pasolini scelse confrontandosi con l’amica scrittrice (e melomane) Elsa Morante: musiche sacre giapponesi, canti d’amore iraniani, campanelli buddisti…Un pastiche atemporale – come la scelta dei luoghi, dove la Cappadocia è la Colchide e la piazza dei Miracoli di Pisa è la razionale Corinto – per esaltare il mistero del mito.