I beni comuni ed il loro valore: è forse questo il significato nascosto della forte polemica in corso in questi giorni a seguito dell’occupazione di una parte terminale della cosiddetta “zona del silenzio” dantesca con tavolini per la ristorazione?
Sebbene altre sistemazioni più congrue forse potevano essere valutate, ci auguriamo che si tratti di una soluzione provvisoria per permettere all’esercizio commerciale che li ha installati di far fronte alle perdite causate dalla chiusura forzata di questi mesi.
Molti indizi, però, lascerebbero supporre che la direzione, ormai comune a tutti i centri storici della penisola, sia quella di trasformare gli spazi pubblici per eccellenza, ovvero le piazze ma soprattutto ogni pubblica via, in vaste mangiatoie a cielo aperto. Il bere ed il mangiare assurgono ormai a valori assoluti universalmente condivisi da celebrare ovunque. Tante volte sentiamo parlare dei centri storici come di “centri commerciali naturali”: nessuno stupore, dunque, che, come in quelli, i pubblici passaggi si affollino di attività, in particolar modo di quelle legate alla ristorazione.
Nessuno stupore per l’Italia, ormai diventata ghiotta preda per la cosiddetta “monocultura turistica” di massa, spesso a bassissimo prezzo, dove i centri storici vengono svuotati di residenti, di attività e di servizi per la cittadinanza e si trasformano in luoghi di “movida” permanente. Al contempo, nelle maggiori città d’arte italiane, si assiste alla vendita, quasi sempre ad acquirenti stranieri, di palazzi pubblici e privati ed alla loro trasformazione, sotto l’occhio compiaciuto delle Amministrazioni, in alberghi, bed&breakfast, ristoranti, fast food, sedi di catene commerciali e multinazionali.
Quando un Ministero per la “cultura” si trasforma in Ministero del turismo, la strada è delineata anche a livello istituzionale. “Cultura” diventa patrimonio gratuito da sfruttare e da vendere fino all’inevitabile “esaurimento scorte”. In nome di un non meglio precisato “snellimento” burocratico vengono smantellati gli organi di tutela ed allentati o soppressi i vincoli che ci hanno permesso di tramandare questo patrimonio inestimabile ed unico al mondo fino ai giorni nostri. Al contempo, muoiono i saperi artigiani e le scuole d’arte che, quel patrimonio, lo hanno costruito nei secoli.
Il patrimonio culturale come valore identitario, la coscienza collettiva del “bello”, del decoro urbano e del paesaggio sanciti dall’articolo 9 della Costituzione, si trasformano, dunque, da beni comuni irrinunciabili, a merce. Di certo un sindaco e gli assessori i quali, oltre concedere la comprensibile autorizzazione di occupazione del suolo pubblico per motivi contigenti, inaugurano festosi i tavolini nella zona sacra dedicata al Poeta che ha reso illustre Ravenna e l’Italia nei secoli, non possono che ignorare anch’essi questi valori ormai divenuti invisibili ai più. Il post-Covid sta contribuendo a cancellare gli spazi identitari e collettivi a favore dell’uso commerciale: misure provvisorie, sempre che lo siano, del tutto comprensibili e reversibili, ma che rischiano di aprire, anch’esse, la strada per un’altra Italia, e per un’altra Ravenna.
Molti, ignari o consapevoli, festeggiano.