La regista Teresa Ludovico porta alla ribalta un testo inedito del 2010 scritto da un drammaturgo fortemente affascinato dalla lingua e dall’uso di registri diversi, Antonio Tarantino, che spaziano dal sacro al profano. Lo spettacolo, Barabba, andrà in scena giovedì 14 marzo alle 21:00 al Teatro Rasi.
La sua rilettura del testo ne esalta la parola, esplorandone la poliedricità musicale, mentre il lavoro sulla ritmica, protesa verso il rap e la poesia, fagocita l’incalzare del testo. Ecco dunque che la scelta d’esibire la carnale nudità dell’attore, in tutta la sua traboccante corpulenza, appare quale metafora della voracità linguistica di Tarantino, che in questo specifico monologo dà voce alla figura controversa di Barabba, il brigante zelota, da tutti conosciuto a seguito della lettura dei Vangeli.
“Attraverso i suoi testi – spiega Ludovico – Tarantino tocca qualcosa che è legato al sacro, al mistero delle cose: per questo ritengo che Barabba rappresenti il suo testamento spirituale. L’autore ci consegna un testo in cui parla della verità e della presunzione di cercarla nell’alto dei cieli o nel profondo della terra, mentre l’abbiamo vicina e non ce ne accorgiamo. Tramite Barabba, Tarantino parla a tutti noi e a se stesso.
Barabba siamo noi e il testo ci consegna una serie di domande, di cui molte bellissime. Pensiamo all’ultima affermazione del protagonista: ‘Ma se Lui mi ha assicurato che me la caverò, allora vuole dire che ci devo credere, perché è venuto qualcuno che mi ha voluto bene’. Una frase del genere, pronunciata da Barabba, liberato al posto del Cristo, che dovrebbe invece essere la Verità, fa riflettere. Tarantino dà voce agli ultimi, e lui stesso ha vissuto una vita ai margini della società. Era schivo, ha ricevuto tanti premi, ma scriveva per necessità, non per essere riconosciuto. È stato una persona umile e molto coerente”. In scena uno straordinario Michele Schiano di Cola, valorizzato dalle luci di Vincent Longuemare. Conclude Teresa Ludovico: “Ho cercato di mettere in scena un corpo imprigionato: noi stessi siamo vittime della nostra condizione e facciamo fatica ad uscirne. Longuemare ha avuto la geniale idea di una struttura di tubi che ricordasse il cantiere, quindi scale, attraversamenti, un corpo imprigionato all’interno di strutture fisiche. Una partitura precisa che corrispondesse ad una altrettanto precisa drammaturgia delle luci, capace di esaltare allo stesso modo il testo e il corpo”.