“Da quando i prezzi del metano, anche a seguito di fallimentari politiche energetiche, hanno raggiunto livelli tali da mettere in difficoltà l’economia nazionale, si è iniziato a parlare di riattivare quei pozzi che sono stati chiusi o non sono stati mai aperti, ma che sarebbero produttivi e riattivabili in poco tempo.
Ad onor del vero di “metano pronto all’uso” non ce ne è tantissimo, infatti la parte più importante che potrebbe davvero dare un buon contributo all’autonomia, necessita di nuove strutture. Eppure alcuni esempi possiamo farli, partendo ad esempio dal giacimento mai prodotto di Agosta, sito nelle Valli di Comacchio, ancora chiuso per un parere negativo della regione Emilia Romagna a fronte di un pozzo già esistente e solo da allacciare; scorrendo poi l’elenco delle piattaforme già esistenti nell’offshore Adriatico, liberamente scaricabile dal sito del MITE, saltano agli occhi altri tre esempi che sono Ada, Giulia e Benedetta, giacimenti mai prodotti per i quali la chiusura è intervenuta poiché ubicati entro le 12 miglia.
Ad oggi tuttavia parlare di potenziare le estrazioni in Italia è irrealistico fintanto che il Pitesai non sarà superato. In alto Adriatico sono presenti riserve di metano importanti, tuttavia le attuali regole lo rendono inutilizzabile, così che se non si deciderà di modificare radicalmente il Pitesai, il gas italiano utilizzabile sarà realmente poco.
È fondamentale sapere, infatti, che non solo non è possibile coltivare giacimenti entro 12 miglia dalla costa, ma anche entro 12 miglia da qualsiasi posto in cui sia presente oggi un’area protetta o che si pensa se ne potrà istituire una. Il fatto più paradossale è relativo ad una piattaforma, oggi attiva, nelle Marche sotto la quale si è creato un ecosistema particolare tanto da aver reso le 12 miglia di mare circostante non sfruttabile. In poche parole la piattaforma ha creato l’area protetta e nell’area protetta non si possono installare altre piattaforme. Tutto questo ha di fatto reso tutto il nord Adriatico, ovviamente nella sola parte italiana, non sfruttabile. Paradosso questo tutto da raccontare visto che al di là della linea di demarcazione con le acque croate i nostri dirimpettai continuano a estrarre gas ben più a nord del vincolo geografico della linea di Goro che invece l’Italia si è imposta. Ne sono un esempio le recenti estrazioni nei giacimenti di Izabela e Irena.
Con buona pace del Sindaco di Ravenna che ha appena lanciato il suo piano energia, se vorremo avere una maggiore autonomia dall’estero è necessario dunque superare il Pitesai e dare certezze normative garantendo almeno 10-15 anni di tempo per poter recuperare l’investimento. Di questo nel pacchetto proposto dal Sindaco, ovviamente, non v’è traccia. Invece, se oggi si superasse il Pitesai e ripartissero gli investimenti, nel giro di qualche anno si arriverebbe a 12 miliardi di metri cubi dagli attuali 3 e si potrebbe ritornare in 10 anni ad estrarne 20 miliardi, vale a dire il 30% del fabbisogno nazionale e questo sì che farebbe la differenza. Purtroppo ad oggi tutto è fermo e questa inattività normativa del Governo ha come effetto quello di accelerare le chiusure e le dismissioni. A tal proposito la preoccupazione è alta visto che in città e in ambiente sindacale iniziano anche a circolare voci di una possibile creazione di una società separata da Eni in cui confluiranno tutte le attività di estrazione in Adriatico. Ci chiediamo con quale futuro… Più si aspetterà oggi più sarà costoso riaprire i giacimenti. Per questo motivo Fratelli d’Italia si sta adoperando non solo per sollecitare l’apertura di quei pozzi chiusi che potrebbero aiutare la produzione nazionale, come ha fatto presentando una mozione regionale poi approvata, ma soprattutto per superare il Pitesai in toto; gli emendamenti “chirurgici” dei quali si apprende notizia in questi giorni da fonti di stampa al momento sembrano infatti sorridere solamente alla ripresa delle attività previste in Sicilia senza nessuna ricaduta sul territorio ravennate.”