La situazione delle RSA (in questo territorio CRA – Casa Residenza Anziani), non è uguale in tutta Italia. Il modello che viene dipinto, e spesso criticato, su molti media nazionali non rispecchia, a detta degli operatori del settore, la realtà romagnola, dove il mondo del non-profit, in gran parte cooperative sociali, gestisce questi servizi in stretta collaborazione con l’Ente pubblico e in maniera radicata sul territorio.
Peculiarità del modello romagnolo
“Le nostre Cra si discostano dagli esempi descritti sui giornali in cui si parla di strutture lontane dai centri urbani di residenza degli ospiti, di personale sottopagato e inserito tramite cooperative di lavoro, di gestori che guardano solo al proprio profitto – spiega Antonio Buzzi di Confcooperative Romagna -. Dal 2009, con la legge sull’Accreditamento, la Regione Emilia-Romagna ha investito nella qualificazione degli enti gestori, soprattutto quelli non-profit e pubblici, dei servizi residenziali dedicati alle persone fragili. Oggi queste realtà sono correttamente gestite, hanno costruito reti e alleanze forti con gli enti pubblici e hanno dimostrato negli anni, ma soprattutto in questo 2020, di essere delle grandi risorse per il territorio e per le politiche di intervento pubblico a difesa dei cittadini. Il nostro modello è diverso e funziona. Ovviamente si può sempre migliorare, ma il lavoro fatto in questi duri mesi è la prova che la collaborazione tra pubblico e privato sociale, ed in particolare la progettazione condivisa nella realizzazione delle strategie di welfare, funziona”.
La gestione durante la pandemia
A partire da febbraio di quest’anno le cooperative sociali impegnate nella gestione delle Cra romagnole hanno lavorato a stretto contatto con Ausl e Pubbliche amministrazioni per mettere in campo tutte le soluzioni possibili per contrastare la diffusione del coronavirus all’interno delle strutture: dalla fornitura di dispositivi di protezione individuale a tutela degli ospiti e degli operatori, all’applicazione di rigidi protocolli sanitari per contrastare la diffusione del virus o per gestire correttamente i focolai verificatisi nelle strutture. “Le nostre cooperative hanno gestito al meglio la situazione all’interno delle Case residenza e hanno dimostrato una forte collaborazione con il sistema socio-sanitario integrato, al punto da diventare unostrumento di politiche pubbliche di intervento – prosegue -. È il caso dell’esperienza dei Nuclei Osservazionali che in alcuni territori romagnoli hanno contribuito a preservare il contagio all’interno delle Cra, e deiNuclei Covid per persone anziane non autosufficienti positive al virus, ma con sintomatologia lieve o assente, che hanno permesso agli ospedali di poter impiegare i posti letto dei reparti Covid per i pazienti con sintomatologie più gravi,consentendo contemporaneamente alle persone non autosufficienti e positive al virus di essere curate in modo adeguato. Tutte queste iniziative sono state realizzate mettendo al primo posto la salute pubblica, senza mai anteporre esigenze di tipo economico, che pur esistono visto che sempre di imprese si parla, anche se non-profit”.
I punti da migliorare
“La direzione intrapresa nel 2009 dalla Regione Emilia-Romagna è quella giusta– continua Buzzi -. A distanza di un decennio è però giunto il momento di aggiornare i protocolli socio-sanitari. Gli ospiti che arrivano adesso nelle Cra hanno sempre più spesso delle complessità cliniche che richiedono maggiore assistenza sanitaria rispetto a quanto oggi previsto dalla normativa. Contemporaneamente va risolta l’allarmante carenza di personale sanitario, medici e infermieri in primis. C’è bisogno di maggior capacità di programmazione pubblica, di una strategia che incentivi la formazione di queste professionalità, incentivandone i profili che oggi sono ricercati e che potrebbero fornire lavoro a molti giovani. Nel frattempo bisogna lavorare nel facilitare gli spostamenti di professionisti provenienti da altre regioni d’Italia o dall’estero. È un tema urgente, che durante questa pandemia si è reso ancora più evidente. Tra l’altro la continua migrazione di questi professionisti dalle strutture per anziani e disabili alla sanità pubblica rischia di lasciare senza tutele le persone più fragili”.