Nei giorni scorsi abbiamo letto sulla stampa una lettera firmata da diversi medici di medicina generale che denunciano difficili condizioni di lavoro, lamentando critiche dai parte dei loro assistiti. Premesso che le criticità presentate possono essere problematiche oggettive e che quando si parla di alcune disfunzioni è sempre necessario precisare che non si deve ricomprendere un’intera categoria, riteniamo che è innegabile che l’attuale organizzazione della medicina generale non sia all’altezza delle esigenze di risposta dei cittadini.
Le persone si aspettano un servizio presente tutti i giorni, per un’ampia fascia oraria ed è chiaro che nessun professionista singolarmente sarà mai in grado di far fronte a questa esigenza. È provato dall’esperienza sul campo che gruppi di professionisti, che lavorano insieme, hanno molto ampliato l’offerta rispetto ai medici che lavorano isolati. Su questo fronte, c’è però un primo problema: l’attuale rapporto di convezione (il medico è imprenditore di se stesso) lascia molto alla disponibilità del singolo. Ad esempio gli lascia la libertà di decidere se aggregarsi ad altri professionisti, se aderire alle medicine di gruppo e alle case della salute, se adottare gli stessi strumenti informatici in dotazione alle Ausl e se aderire ai diversi programmi di gestione dei pazienti cronici. Questo produce delle differenze rilevanti nelle risposte che i cittadini ricevono.
Una parte dei medici, non sentendosi parte organica delle Ausl, svolge un’attività assistenziale separata e a volte di scarsa efficacia, trincerandosi dietro l’autonomia del proprio status di liberi professionisti. La conseguenza è che le case della salute (le case di comunità di domani, così come le prevede il Pnrr) non potranno mai essere un punto di riferimento certo per i cittadini.
Durante la pandemia, i fatti hanno dimostrato che la frammentazione e l’isolamento nella medicina generale e della pediatria di base e l’attuale modello organizzativo rendono estremamente fragile il sistema.
La Cgil condivide parte delle preoccupazioni espresse nella lettera dei medici di medicina generale e riconosce, per alcuni aspetti, le difficoltà della gestione legata alla pandemia. Il sistema di tracciamento non è in grado di affrontare i grandi numeri e gli studi dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta sono presi d’assalto e oberati con richieste burocratiche legate a isolamento, quarantena, tracciamento per le scuole.
Resta il fatto che nel ridisegno della rete territoriale dei servizi, i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta restano la porta d’accesso al sistema sanitario pubblico e qualunque sarà la decisione sulla natura del rapporto di lavoro su cui si è aperto il confronto fra governo ed enti locali, è necessario prevedere l’obbligo di prestare servizio all’interno delle case della salute (case di comunità) e di adottare i programmi, gli strumenti e l’organizzazione definiti dalle Regioni in piena integrazione con le strutture sanitarie delle Ausl. Occorre cioè individuare modi e strumenti per realizzare organizzazioni territoriali multiprofessionali (medici, infermieri, assistenti sociali, ostetriche, ecc.) che operino congiuntamente, che si coordinino e che abbiano obiettivi comuni, che si dotino di modalità di lavoro condivise, che abbiano le stesse tecnologie di supporto. Lavorare da soli non aiuta i professionisti e non aiuta quindi neppure i pazienti, anche nell’efficacia e nell’appropriatezza dei percorsi territorio/ospedale.
Infine va sottolineato come la carenza di professionisti già oggi di fatto non garantisca al cittadino la libera scelta del medico, il quale è comunque tenuto a scelte cliniche dettate dalla deontologia professionale, a prescindere dalla natura giuridica del rapporto di lavoro.