“La calamità che ha colpito Ravenna è stata causata da piogge abbondantissime, ma non imprevedibili, tanto che, secondo le previsioni statistiche aggiornate, è normale che avvengano in media ogni cinquant’anni. Se però hanno prodotto disastri immensi, è perché il governo del territorio e del suo regime idrico, ad opera della Regione e del nostro Comune, è stato fallimentare. Fronteggiare l’emergenza, sistemare i danni e risarcirne le vittime incolpevoli è un dovere collettivo, al di là delle polemiche di parte. Chi però ha fallito non può pretendere di amministrare in regime commissariale, coi pieni poteri, i miliardi pubblici della ricostruzione, che certo non deve avvenire coi modi della distruzione. Sono numerose, in tal senso, le dimostrazioni/conseguenze del malgoverno politico regionale e locale. Prenderne coscienza vale perché città e territorio risorgano più forti e sicuri.

PREVENIRE IL RISCHIO

In base ai dati ufficiali più recenti, l’Emilia-Romagna è stata ridotta a seconda regione italiana più a rischio di alluvioni, che incombono sull’11,6% del suo territorio. La provincia di Ravenna, seconda in regione, è messa molto peggio, col 22,2%. Questa stessa Regione ha restituito allo Stato, per non averli spesi, 55,2 milioni di euro destinati a rafforzare il sistema idrico regionale. Nulla si è più saputo del progetto da 2 milioni e 155 mila euro messo a bando di gara l’autunno scorso, volto a mettere in sicurezza dal rischio idrogeologico tutti i corsi d’acqua della provincia di Ravenna, compresi Ronco, Lamone, Savio, Bevano, Montone e Fiumi Uniti. Tra le opere finanziate coi fondi europei del PNRR, 3 miliardi sono riservati all’Italia per scongiurare inondazioni e frane. La provincia di Ravenna ne ha chiesto appena 15 milioni. Il solo Comune di Ravenna si vanta di ricevere dal PNRR 280 milioni, da spendere in tante altre direzioni, anche discutibili, sicuramente meno prioritarie.

ABBATTERE IL CONSUMO DI SUOLO

L’enorme espansione delle aree urbanizzate in Emilia-Romagna e a Ravenna ha tolto superficie alla campagna, facendo aumentare l’acqua che finisce nei fiumi e canali (tra l’altro impoverendo le falde freatiche, con aumento della siccità). Quando questi inevitabilmente straripano, l’acqua, non più assorbita dalla terra, produce paludi che sommergono interi quartieri o paesi, come è stato a Fornace Zarattini, tutta cementificata. In prossimità dei fiumi e dei maggiori canali non si sarebbe dovuto costruire alcunché, ma Ravenna ha fatto il contrario, e continua ancora. Se ne sono viste le conseguenze, ma altre più terribili potrebbero succedere, ad esempio a lato del Montone (ESP compreso) e dei Fiumi Uniti. Vantarsi che “la regione Emilia-Romagna ha approvato nel 2017 la legge a saldo zero sul consumo di suolo, un faro per tutta l’Italia”, mistifica che, in realtà, questo è solo un obiettivo, da raggiungere (forse) entro il 2050. Ma soprattutto che a tutt’oggi questa legge non ha avuto la benché minima applicazione. Anzi, nel 2021, l’Emilia-Romagna è stata classificata terza regione italiana per maggiore consumo di suolo. Tragico il Comune di Ravenna, secondo in Italia dopo Roma, che, avendo cementificato <?xml:namespace prefix = “st1” ns = “urn:schemas-microsoft-com:office:smarttags” />68,7 ettari in più del 2020, ha ricevuto, su una scala da 1 (pessimo) a 10 (virtuoso), il voto infelice di 1 e mezzo. Quando la legge comincerà ad avere qualche pallido effetto, non prima del 2025, qui resterà poco da salvare. Si spiccino almeno.

ELIMINARE LA VEGETAZIONE IN ECCESSO

È inefficiente la gestione dei sedimenti e della vegetazione fluviale, che, soprattutto in primavera, quando il fogliame cresce, genera spesso fitte boscaglie di cui l’esempio eclatante è il Ronco a Coccolia. Si rallenta così lo scorrimento dell’acqua, fino a che tracima dagli argini.  Se poi la vegetazione viene trascinata a valle, può generare, a contatto con dei ponti, un devastante effetto diga. È indispensabile che le alberature (in pianura non c’è da frenare smottamenti, come in collina) e la vegetazione in eccesso siano tagliate e rimosse costantemente dai fiumi.

ALLARGARE GLI ALVEI, SCAVARE CASSE DI ESPANSIONE

I fiumi devono avere il loro spazio. Le aree a fianco degli alvei, ripulite, sarebbero dovute servire per incrementarne l’estensione, anche arretrando le arginature, creando così nuove golene dove le acque in piena avrebbero potuto sconfinare. Bisogna agire sulle superficie e non sull’altezza degli argini, ormai al limite. D’altro canto, si sarebbero dovute realizzare casse di espansione, capaci, in caso di emergenza, di accogliere l’acqua in uscita dagli ambienti arginati evitandone la dispersione nelle campagne o nei luoghi abitati. La Regione ne ha fatto 14 in Emilia, neanche una in Romagna. Dopo la terribile tempesta del 2018 nel Triveneto, tuttavia meno invasiva di questa che ha colpito la Romagna, la Regione Veneto ha compiuto oltre 300 interventi per il controllo delle acque, realizzando una serie di grandi bacini di espansione che l’hanno oggi salvata dalle inondazioni.

MONITORARE COSTANTEMENTE GLI ARGINI

Non esiste più il controllo attento e continuo, effettuato fino a qualche anno fa da sorveglianti idraulici molto esperti, sempre in movimento lungo gli argini. Monitorarli di continuo serve a scoprire crepe, fuoruscite d’acqua, tane e gallerie scavate da istrici, tassi e nutrie, in modo che siano bonificate con urgenza.

PIANIFICARE LA GESTIONE EMERGENZIALE DEI CANALI DI CAMPAGNA

La gestione dei canali di campagna ha dimostrato di essere impreparata a fronteggiare l’emergenza, quasi fosse inaspettata, anziché organicamente prevista e pianificata con tutti i sistemi tecnologici di controllo e di esercizio. Occorre partire, come minimo, da un piano che stabilisca il fabbisogno e i modi di acquisizione degli impianti idrovori necessari sia stabilmente su base locale, che nelle emergenze, su scala provinciale, impostandone e definendone strutturalmente le garanzie dell’impiego efficiente, che non può mai essere improvvisato. Prendiamo per esempio il canale Fosso Drittolo, che parte dalle campagne di San Marco, oltrepassa le zone Centro iperbarico/Consar e arriva in via Canalazzo, dopo avere attraversato mezza città. La sua drammatica esondazione non sarebbe esplosa, se – riferito da testimoni oculari – l’idrovora di via della Gregoriana (l’ex via Rotta oltre la ferrovia per Ferrara), funzionante all’inizio, non si fosse bloccata allagandosi, e quella sostitutiva, arrivata tardivamente, non fosse stata di portata insufficiente.”