“Sin dalla nascita della PAC (politica agricola comune) la comunità europea prima, e l’unione poi, hanno sostenuto i redditi degli agricoltori considerati l’anello debole della filiera agroalimentare in quanto incapaci di imporre un prezzo alle merci che producono e vendono e per questo vengono considerati dei price taker, ma anche perché questi subiscono le conseguenze delle imprevedibilità climatiche.
Nel 1964, nascita della PAC, le iniziative comunitarie erano volte all’aumento della produzione agricola ma poi, dal 1984 è iniziata una fase di gestione della produzione arrivando a dei paradossi quali, ad esempio le “quote latte”, che obbligava i produttori che producevano latte in quantità eccedente rispetto alla quota assegnata a pagare delle multe. Molti di noi si ricorderanno le rivolte degli agricoltori che, per protesta verso questo diabolico sistema di gestione delle produzioni, riversavano cisterne di latte per strada.
Negli anni seguenti gli aiuti diretti agli agricoltori sono continuati ed aumentati fino ad arrivare al punto che il bilancio della PAC fosse pari al 50% di quello di tutta la UE.
Con le successive PAC si è notato uno slancio verso la sostenibilità tant’è che l’ultima, in vigore dal 1° gennaio 2023, rientra nelle politiche del “Green Deal europeo” volte a fare diventare l’Europa il primo continente ad impatto climatico zero.
È pleonastico affermare che tale obbiettivo pare oltremodo utopistico e che le conseguenze di tali politiche potrebbero mettere in ginocchio l’economia dell’Unione i cui produttori ed operatori economici si troveranno a competere con il resto del mondo che invece non ha alcuna intenzione di abbandonare combustibili fossili e che non è affatto attratto da politiche simili.
Le proteste degli agricoltori, che si verificano ciclicamente, devono essere analizzate conoscendo il quadro complessivo delle politiche comunitarie.
Oggi gli agricoltori protestano su più fronti.
Essi sono contrari al crescente divieto di utilizzo di sostanze nell’agricoltura, non solo biologica, ma anche convenzionale. Tale divieto avrebbe come effetto la difficoltà di mantenere numeri di produzione idonei a soddisfare la domanda interna ed un maggior costo di produzione. Ciò favorirebbe i produttori di paesi extra UE che non devono sottostare alle limitazioni comunitarie. In definitiva la concorrenza fa bene al mercato ma solo se opera in un contesto di parità di strumenti a disposizione ai vari player del mercato. L’effetto di tale politica è che nei supermercati un’arancia turca si trova ad un prezzo nettamente inferiore rispetto ad una siciliana o spagnola.
Altro elemento di protesta è l’introduzione di cibi “innovativi” come le farine di grillo e la carne sintetica. Questi alimenti rientrano nella categoria dei novel food, disciplinati dal reg. UE n. 2015/2283.
Prima di vedere la carne sintetica sui nostri scaffali si dovrà espletare la procedura descritta all’articolo 10 di questo regolamento. Un iter lungo e di garanzia che vede il coinvolgimento di molteplici organi deputati alla salvaguardia della sicurezza del mercato dell’Unione e di per sé idoneo a garantire che, nel caso in cui la carne coltivata fosse effettivamente pericolosa per la salute umana, non potrebbe e non verrebbe immessa nel mercato.
In tale contesto normativo, qualora la carne sintetica dovesse trovare l’autorizzazione ad essere immessa nel mercato, la normativa italiana, di recente approvazione, volta a vietare la produzione e commercializzazione di carni sintetiche, dovrà essere disapplicata in quanto costituirebbe un ostacolo alla libera circolazione delle merci.
Gli agricoltori, abituati ad una politica di sussidi, peraltro necessari, oggi vengono “aiutati” a non lavorare. In tal senso va letto il bando recentemente approvato dalla Regione Emilia Romagna con la delibera della Giunta n. 2133 del 4 dicembre 2023.
La Regione corrisponderà per i prossimi venti anni, dai 500 ai 1.500 euro a ettaro all’anno per non coltivare.
Un’altra norma assurda che trova le sue ragioni, a detta della Giunta, nella necessità di promuovere lo sviluppo sostenibile ed un’efficiente gestione delle risorse naturali.
Insomma l’ennesima follia “green” che non si cura della sostenibilità sociale ed economica. Non si tengono infatti in considerazione né dell’importanza del passaggio generazionale delle imprese agricole, che sono così indotte ad uscire dal mercato e a morire, né del fatto che l’Emilia Romagna è regione di grandi eccellenze alimentari, come ha confermato il recente Rapporto Ismea-Qualivita 2023 sulla Dop economy italiana.
L’Emilia-Romagna si conferma seconda regione in Italia per impatto economico del settore IG con un valore pari a 3.969 milioni di euro nel 2022 generato dalle 74 filiere del cibo e del vino DOP e IGP.
È quanto mai urgente un cambio di passo nelle politiche europee e regionali frutto di scelte ideologiche compiute senza cognizione di causa e della materia, delicata, su cui riverberano i loro effetti.”
Avv. Lucio Salzano
Responsabile per la Provincia ed il Comune di Ravenna del dipartimento agricoltura ed eccellenze italiane di Fratelli d’Italia