In un momento in cui i gestori degli stabilimenti balneari rivendicano i propri diritti in tema di concessioni, difendendo il valore aggiunto delle imprese locali radicate da anni nella riviera romagnola, ci si chiede se allo stesso tempo le lavoratrici e i lavoratori stagionali non debbano avere pari attenzione mediatica nel rivendicare un secco no al tradizionale sfruttamento che rischia di restare immutato con il passare degli anni.
La stagione balneare è alle porte e i social e la stampa sono pieni più del solito di annunci di ricerca di personale in tante attività della riviera. Ma qual è la situazione reale?
In Italia e anche in Romagna per decenni ha prevalso in alcuni imprenditori poco illuminati la cultura dello sfruttamento legalizzato, settimane di lavoro di 60 ore, assenza di pause o di turni di riposo che prevedessero un’alternanza del personale in forza, dove ammalarsi suonava come un divieto.
Ci si chiede se i tempi non siano maturi per un cambio di mentalità imprenditoriale, ma i fatti arrestano subito le speranze. La realtà è che il modello romagnolo, quello che ci fa a volte sentire orgogliosi del nostro turismo, “nasconde” troppe volte un sistema che si basa sull’evasione e sul lavoro irregolare. Spesso il contratto di assunzione c’è, ma con condizioni ben lontane dalla realtà.
Contratti a chiamata o part time da 15/20 ore a fronte rapporti di lavoro che dovrebbero essere full time, il giorno di riposo spesso saltato.
Questo è il lato oscuro della costa, che tanto oscuro però non è.
Persino lo storico sistema della retribuzione a forfait non è nemmeno sufficiente a retribuire tutte le ore effettivamente svolte.
A questa situazione si è costretti ad allinearsi se si vuole lavorare, e se non ci sei tu avanti un altro più bisognoso. La conseguenza che ne deriva è un danno retributivo e contributivo, perché alla fine della stagione con pochi contributi si prende anche poca disoccupazione, risultato di un sistema che toglie al lavoratore anche le tutele a fine contratto.
Suonano pertanto fuori luogo le recenti dichiarazioni apparse in varie testate giornalistiche locali dove viene lamentata la difficoltà delle imprese nel trovare il personale nel settore del turismo, addossando addirittura la colpa al reddito di cittadinanza: la manodopera c’è, basta pagarla nel rispetto dei contratti collettivi e delle normative nazionali.
La UIL di Ravenna chiede a tutte le imprese del settore turistico di riflettere anche sull’etica della loro attività imprenditoriale riconoscendo la dignità delle persone e il valore del lavoro perché senza queste premesse non potremo mai avere un turismo di qualità come tutti auspichiamo.